Nazým HikmetHikmet è un poeta molto traducibile. Ritengo che tutti i poeti siano molto traducibili, se si conoscono abbastanza profondamente. Per conoscerli a fondo, non basta la filologia e la linguistica. Ci vuole un'affinità, una capacità di partecipazione integrale ma sempre critica al mondo poetico dell'autore, con, tutte le sue fondamenta morali e spirituali, del raziocinio e della sensibilità. Se c'è questa partecipazione, le differenti circostanze ambientali e d'espressione si assorbono facilmente, per ricostruirsi in forme analoghe e fedeli nel diverso linguaggio in cui vengono trasposte. Bisogna capire del poeta molto più di quanto possa essere acquisito attraverso i vocabolari, le grammatiche e la storia della letteratura. In Hikmet, vita e poesia, azione e parola, erano legate in modo cosi organico e solare, che è illuminante, per conoscere la sua poesia, conoscere le sue vicende. Nazým Hikmet è nato a Salonicco nel 1902, da Hikmet bey, capo dell'ufficio stampa del governo Giovane-Turco di Talat bey, e di Aiscé Jelilé, pittrice, coltissima e, a quanto si dice, la più bella donna della Turchia di allora. Il nonno paterno, Nazým. pascià, fu governatore di varie province sotto il sultano Abdulhamit; era anche poeta e apparteneva alla setta dei Mevlevé, dervisci vagabondi che derivavano il loro nome dal poeta Mevlana Gelaleddín. Scriveva in ottomano, ossia in un linguaggio formato per il 75 per cento da parole arabe e persiane, con regole grammaticali e sintattiche arabe e persiane. Il nonno materno, Enver pascià, figlio di un nobile polacco fuggito dalla Siberia zarista e fattosi musulmano, era un militare di carriera, uscito dall'accademia di Saumur, e più tardi comandante della piazza di Salonicco. Ma era soprattutto un filologo e uno storico di grande valore, fondatore del Dil-Tarih Kurumu (Comitato per la lingua e la storia turca), centro culturale del movimento nazionalista. Il giovane Kemal pascià, futuro Atatürk, lo considerava suo maestro, non solo nell'arte militare, ma anche nel campo della cultura. Sia Enver pascià che l'altro nonno di Hikmet, diversamente dai signori turchi del loro rango, non tenevano un harem ed erano monogami all'uso occidentale. La moglie di Enver pascià era figlia di un tedesco, nato a Brandeburgo da famiglia ugonotta e destinato alla carriera marinara; sennonché, giunto un bel giorno nel Bosforo con la sua nave-scuola, il giovanissimo brandeburghese era fuggito e aveva ottenuto di presentarsi al sultano Abdulaziz; il sultano lo fece adottare dal suo gran visir; convertitosi all'Islam col nome di Mehmet Ali pascià, l'ex cadetto di marina divenne generale e maresciallo dell'esercito, e andò a trattare con Bismarck al congresso di Berlino in veste di plenipotenziario ottomano. La sua prestigiosa carriera fini in Albania, dove il sultano Abdulhamit, insospettito delle sue tendenze progressiste, lo fece assassinare. In una famiglia cosi complessa, non mancarono certo al piccolo Hikmet gli elementi di una cultura ricca e varia, in cui si mescolavano le tradizioni e i costumi dell'oriente e dell'occidente. Il nonno Nazým pascià gli leggeva i preziosi componimenti di Mevlana e di Omar Khayam, la madre Aiscé gli spiegava Baudelaire e Lamartine. Nazým componeva versi già da quando aveva imparato a scrivere, ossia dall'età di sette anni; e costringeva la sorellina più piccola a impararli a memoria e a recitarli. Coi compagni di scuola, faceva dei giornaletti scritti per buona parte in versi. Ma la prima poesia la scrisse a tredici anni. Era ispirata a un incendio cui aveva assistito dalla finestra della sua casa. Il ritmo era quello della metrica chiusa arabo-persiana che si chiama aruz; l'aruz comporta delle cesure obbligate, che però non sono né sillabiche né toniche. Si sentiva l'influsso non tanto della poesia del nonno quanto di quella di Tefik Fikret, il primo poeta umanista turco, che scrisse versi contro la guerra e contro la religione. Il suo ottomano era un po' modernizzato. Era l'unico poeta che godesse dei favori di Nazým bey, il padre di Hikmet. La seconda poesia Hikmet la scrisse a quattordici anni. C'era la prima guerra mondiale. Suo zio era caduto ai Dardanelli, e il ragazzo si sentiva molto patriota. Non era più scritta in ottomano bensì in un turco liberato in parte dalle parole arabe e persiane; ma ancora molto impacciato. Questa volta imitava il poeta Melimet Emin, che scriveva in turco con metriche sillabiche, ed era considerato il poeta del nazionalismo turco. A sedici anni, Hikmet scrisse la sua terza poesia. In quell'anno un grande poeta turco dominava la nuova letteratura. Usava un linguaggio poetico moderno e si chiamava Yaya Kemal. Era anche professore di lettere all'Accademia di Marina, dove Hikmet si era immatricolato a quindici anni. All'Accademia si scriveva ancora il turco coi caratteri arabi; il linguaggio che si studiava sui testi era un linguaggio colto, diverso dalla lingua popolare, incomprensibile ai facchini di Istanbul e ai contadini dell'Anatolia. Dei contadini il ragazzo non sapeva ancora nulla: li aveva visti a distanza, curvi fino a terra nei loro stracci polverosi, quando uno dei nonni lo conduceva a fare una scarrozzata in campagna, al trotto rapido di quattro purosangue. I genitori avevano divorziato. Aiscé era andata a Parigi a studiare pittura, e Nazým bey pensava, principalmente, a corteggiare le belle donne. Intanto, persa la guerra a fianco della Germania, l'impero ottomano crollava, e si affermava il movimento nazionalista capeggiato da Kemal pascià. Egli continuava la guerra contro inglesi francesi e greci, e contro il sultano che aveva accettato le condizioni di resa. I turchi erano soprattutto i contadini e i pastori dell'Anatolia, oppressi e sfruttati dallo Stato ottomano, che aveva sempre considerato l'Anatolia una specie di colonia. 1 conquistatori ottomani provenivano dai Balcani, e avevano costruito un immenso impero soggiogando i popoli dell'Arabia e dell'Africa del Nord; per gli ottomani, i turchi erano una razza inferiore, e li avevano esclusi per secoli da ogni diritto civile. Ora, perse un po' alla volta tutte le province, l'impero, per ironia della sorte, si era ridotto o poco più della sola Anatolia, abitata dai turchi cosi o lungo disprezzati, e ormai in piena rivolta. Fino alla guerra e alla sconfitta, i Giovani Turchi avevano fatto del riformismo, tentando di modificare il sultanato e il califfato senza abbatterli. Ma adesso Kemal pascià era deciso a andare fino in fondo, e a distruggere le tradizioni e gli istituti ottomani, per fare della Turchia uno Stato indipendente e moderno. Hikmet, a diciotto anni, fuggi dall'Accademia di Marina e traversò a piedi l'Anatolia per raggiungere Kemal pascià e i nazionalisti. Vide i contadini in faccia, entrò nelle loro capanne, parlò con loro, scopri il loro linguaggio e i loro canti; conobbe le distanze e le arsure della steppa, e i pastori coi loro greggi, e la spaventosa miseria di un'umanità fuori della storia. Questa esperienza segnò una svolta definitiva nella sua esistenza. Da allora, egli legò la sua sorte alla loro. Kemal pascià lo mandò, con altri giovani intellettuali, in villaggi sperduti, a insegnare a leggere e scrivere agli analfabeti. Là Hikmet scrisse le prime poesie civili, che venivano stampate sui fogli nazionalisti e recitate nelle riunioni. In un grande comizio a Ankara, alla presenza di Kemal (che oramai chiamavano Atatürk, padre dei turchi), il giovanissimo Hikmet recitò una sua poesia patriottica e fu salutato poeta nazionale della nuova Turchia. Nel '22 fu pubblicato il suo poemetto Anatolia nel quale, sul ritmo dei canti popolari tramandati oralmente di generazione in generazione, si canta la miseria e la ribellione dei contadini turchi. Ma già Hikmet si era distaccato dal partito kemalista il quale, incapace di risolvere il problema fondamentale della Turchia (la riforma agraria e l'inserimento nello Stato della classe contadina) subiva una rapida involuzione conservatrice. I contadini e i pastori continuavano a vivere come ai tempi di Bisanzio e dell'impero ottomano, anche se dovevano cambiare i vecchi nomi tolti dal Corano con nomi nuovi e allegri, come Turco-Felice e Yussuf-il-Moderno, da iscrivere negli elenchi anagrafici non più in lettere arabe, ma con l'alfabeto latino. Hikmet, a Bolu, il villaggio dove faceva il maestro elementare, conobbe un gruppo di operai- reduci dalla Germania, che gli descrissero con entusiasmo il movimento spartachista. E ad Ankara, un funzionario di banca proveniente anche lui dalla Germania e di simpatie comuniste, Scinasi, gli presta i primi testi di Marx. Nel marxismo, il giovane vede prospettata la soluzione dei problemi che il nuovo Stato kemalista lascia insoluti. Ma, della Rivoluzione d'ottobre, non sa ancora nulla. Kemal Atatürk, profondamente antirusso e antisovietico, tiene le frontiere con l'Unione Sovietica ermeticamente chiuse e non costruisce strade in Anatolia per impedire ogni traffico e scambio tra i due paesi. Ora, sconfitti gli anglo-francesi, non sente più il bisogno dell'appoggio del governo di Mosca, che l'aveva sostenuto nella sua lotta per l'indipendenza; e inizia una feroce persecuzione contro l'esiguo partito comunista turco d'ispirazione spartachista (nel '20, aveva un solo deputato al Parlamento di Ankara, e un giornaletto Yeni Hayat - Vita Nuova - al quale Hikmet collaborava) e le sue organizzazioni sindacali; persecuzione che culmina col massacro dei quindici dirigenti comunisti, tra cui il segretario del partito, Mustafa Sufi. Su questo episodio, in cui rivive il costume di frode e di crudeltà della tradizione ottomana, Hikmet scrive il canto "Quindici ferite", ispirato anche questo alla poetica popolare; poi, per non fare la fine di Sufi e dei suoi compagni, passa clandestinamente il Mar Nero coi contrabbandieri insieme al suo amico giornalista Vala Nurettin, e sbarca sulla sponda sovietica. L'idea dei due giovani era di arrivare, attraverso la Russia e la Polonia, in Germania. Ma la scoperta della rivoluzione sovietica, cosi vicina eppure ignorata, è folgorante. Questo, è il mondo tanto sognato! Felici, distribuiscono il danaro che hanno addosso ai contrabbandieri (nel loro giovanile entusiasmo, ritengono che nella nuova società di lavoratori il danaro non serva più) e si dirigono, con la sola camicia e i pantaloni che hanno indosso, verso Mosca. Arrivato a Mosca, dopo un viaggio assai fortunoso, Hikmet si iscrive all'Università comunista dei lavoratori d'Oriente, e inizia li, a contatto con Majakovskij e Esenin, Vachtangov e Meyerhold, una nuova fase della sua attività letteraria. Scrive articoli di focosa polemica contro l'arte pura; anche le canzoni popolari gli sembrano troppo conservatrici; si entusiasma per tutte le esperienze delle avanguardie sovietiche e occidentali. I suoi versi sono ora in ritmi liberi, con immagini ispirate alla civiltà industriale, alla tecnica e alla scienza; Bagritsky li traduce in russo e hanno grande successo. S'interessa con passione al nuovo teatro sovietico e lavora con l'Artem di Ekk, La Scopa. Osserva il geniale evolversi del cinematografo attorno a Eisenstein e della pittura attorno a Chagall. "A 18 anni," scrive Hikmet "passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla fame e alle cimici, contro l'esercito greco sostenuto dagli inglesi e dai francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto in un altro modo. Ma non ne fui capace. Per trovare il modo giusto era necessario, a quanto pare, che passassi nell'Unione Sovietica. Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un'ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-22, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e un'immensa speranza, un'immensa gioia di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un'altra umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo." Nel '24 Kemal Atatürk dà il colpo finale al califfato, si libera definitivamente dall'influsso del clero nella vita pubblica, e sembra che ora, vittorioso su tutta la linea, voglia garantire almeno le libertà formali sul piano politico. Hikmet ritorna a Istanbul, per riprendere la lotta politica nel suo paese. Ma al primo pretesto (il tentativo insurrezionale dello sceicco Said), Kemal scatena di nuovo la repressione antisindacale e antipopolare. Manda messaggi a Hikmet per indurlo a un colloquio, ma questi rifiuta ogni compromesso e continua illegalmente. la sua attività; condannato in contumacia a quindici anni di carcere, si reca a Smirne per organizzare una tipografia clandestina. La scrive "Il canto degli uomini che bevono il sole". Da quel periodo della sua vita trarrà anche l'argomento per l'unico romanzo che scrisse. Alla fine del '25, ritorna a Mosca, riprende i suoi studi all'università, e la sua attività teatrale e poetica. Ormai conosce il russo perfettamente, ed è inserito nel movimento culturale sovietico. Tuttavia continua a scrivere, come in tutta la sua vita, sempre e solamente in turco. Nel '28 rientra clandestinamente in Turchia, viene scoperto e arrestato e fa i suoi primi sette mesi di prigione: da allora, fino al '51, resterà in patria, e la sua esistenza sarà un continuo passaggio dalla semiclandestinità alla clandestinità al carcere. 1 tribunali turchi lo hanno condannato, complessivamente, a cinquantasei anni di prigione, di cui ne ha scontati in tutto diciassette; e vi sarebbe certamente morto, per mano del boia o per la malattia di cuore che vi contrasse, se la campagna mondiale degli uomini di cultura promossa da Tristan Tzara non avesse costretto il governo' turco a risparmiargli la vita. Nel '29, tra un arresto e l'altro, Hikmet riuscì a pubblicare la prima raccolta di versi apparsa in Turchia: 835 righe; e poco dopo, La Gioconda e Si-Ya-U, Varan-3, 1+1=1. Queste pubblicazioni, il cui titolo stesso rivela l'influenza del cubofuturismo russo, gli valsero un nuovo arresto, sotto l'accusa di propaganda comunista: ma l'accusato seppe difendersi con tanta energia, e il successo delle sue poesie era cosi diffuso, che i giudici dovettero assolverlo. L'anno dopo, nella raccolta Un telegramma venuto di notte, la polizia scopre gli estremi di un complotto contro il governo, e al nuovo processo, il pubblico ministero chiede la pena di morte. Tuttavia viene condannato solo a cinque anni di prigione, abbreviati dalle amnistie, e nel '33, di nuovo libero, riprende l'attività politica e letteraria, che per Hikmet sono poi una cosa sola. Ritratti, Un giovane abissino in Italia (che suscitò un incidente diplomatico con le rappresentanze italiane in Turchia; per cui l'editore turco dove cambiare il titolo in Lettere a Taranta Babú), il Poema dello sceicco Bedreddin (in cui si narra di una rivolta contadina nell'Anatolia del XV secolo) sono raccolte di versi che poté ancora pubblicare in patria. In queste, lo stile di Hikmet, liberato dagli influssi troppo diretti e della poesia d'avanguardia e dei canti popolari, raggiunge ormai la sua piena e complessa originalità. La costante dello stile di Hikmet è la sua luminosa chiarezza, l'armonia tra la posizione morale e la espressione poetica. L'uomo e il poeta coincidono. Di qui la semplicità, la sincerità e l'equilibrio del rapporto fra contenuto e forma. La poesia è un mezzo "normale e naturale" del discorso umano, un alto strumento del colloquio tra gli uomini. L'esuberante estro spontaneo si accompagna sempre alla presenza della coscienza razionale, di una partecipazione totale e pur critica alla storia e al divenire umano. Non cerca la poesia in assoluto, conclusa in sé, né l'evasione individuale; la sente bensì come "servizio", come utilità nel senso più largo (anche una pura sensazione musicale può essere utile, in quanto dà piacere a qualcuno e a qualcuno si rivolge, purché non si esaurisca in se stessa e si dimensioni come momento tra i molti altri momenti). "Penso," egli diceva "che la poesia debba essere innanzitutto utile... utile a tutta l'umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona. Utile a una causa, utile all'orecchio... Voglio essere capito e letto dal maggior numero possibile di persone, ai più vari livelli di cultura, nei più diversi stati d'animo, dalle prossime generazioni. Voglio essere traducibile per i popoli più diversi." L'impronta particolare del genio di Hikmet è l'autentica, fiduciosa, freschissima spontaneità di questa coscienza dell'utile; che non è una sovrapposizione schematica, ma la natura stessa della sua ispirazione. "Credo che la forma sia perfetta," egli diceva "quando dà la possibilità di creare il ponte più solido e più comodo tra me, poeta, e il lettore." "Detesto non solo le celle della prigione, ma anche quelle dell'arte, dove si sta in pochi o da soli." "Sono per la chiarezza senza ombre del sole allo zenit, che non nasconde nulla del bene e del male. Se la poesia regge a questa gran luce, allora è vera poesia." Se Hikmet, durante quegli anni, non venne ucciso, lo si deve forse a qualche intervento personale di Kemal Atatürk, il quale ogni tanto si faceva leggere in privato i suoi versi e esclamava: "t il più grande poeta turco; peccato che sia un avversario polittico!"; e non dimenticava del tutto l'ammirazione e l'amicizia che l'avevano legato ai nonni del giovane poeta, suoi maestri e consiglieri. In Spagna, si combatte la guerra civile. La polizia trova numerose copie della famosa poesia di Hikmet "Alle porte di Madrid" nelle tasche di marinai e di allievi dell'Accademia Militare. Egli viene arrestato e condotto davanti ai tribunali dell'Esercito e della Marina: il primo lo condanna a quindici anni di carcere, il secondo a venti. Dal '38 al '50, le porte del carcere non si riapriranno più. La situazione politica è ancora peggiorata. Kemal Atatürk è morto e la Turchia, pur senza entrare in guerra, appoggia la Germania hitleriana. Le condizioni della prigionia sono ora durissime, con mesi interi di segregazione cellulare; la malattia di cuore culmina in un infarto e la minaccia dell'impiccagione e sempre sospesa sulla sua testa. Tuttavia Hikmet continua a lavorare e a tentare sempre di far uscire i suoi versi dalla prigione. A volte gli negano di che scrivere, e allora elabora le poesie mentalmente e le fa imparare a memoria a chi può venire a visitarlo: questo lo costringe a una disciplina che dà risultati altissimi, come nelle Lettere dal carcere, dirette alla donna amata. L'amore, nelle poesie di Hikmet, non si riduce mai a erotismo o a ossessione romantica: è inserito nel contesto della vita e impegna la sua intera umanità; è il punto di un altissimo equilibrio raggiunto, non il terremoto che sconnette la personalità, dissociandola in velleità inconciliabili. E la donna è una donna, un essere umano completo, un amico e un compagno di lotta oltre che un'amante, non solo immagine, stimolo o oggetto. La figura femminile riassume tutte le cose che ama, il suo paese, la sua lotta, lo slancio ideale, la speranza, integrando l'amore nella dinamica dell'esistenza reale. Per molto tempo, in prigione, non gli danno da leggere altro che la Bibbia e il Corano. Da questi trae ispirazione per un dramma satirico, Giuseppe il Magnifico. "Sono il solo scrittore marxista," dice Hikmet "che abbia scritto un dramma di argomento biblico, basandosi rigorosamente sulle Sacre Scritture." La più vasta opera che scrisse, o a tratti costruì oralmente, in quegli anni, è un poema di oltre settantamila versi divisi in otto libri, intitolato Paesaggi umani. La sua struttura era monumentale: partendo dall'esperienza del carcere e dalla descrizione dei personaggi che Hikmet si trovava attorno, dalle loro origini e dalle loro vite, si allargava alla descrizione della intera Turchia per risalire poi alle fasi della sua storia recente. Dalla' Turchia e dai suoi contatti col mondo esterno, giungeva alle condizioni storiche e alle prospettive generali dell'umanità. Tutta l'esperienza umana e culturale di Hikmet si esprimeva cosi in questa grande costruzione, prendendo le mosse dal particolare e dal concreto per giungere, come in cerchi concentrici, a una visione completa dell'esistenza. Il periodo cui si riferisce il poema va dal 1908 (quando il movimento dei Giovani Turchi guidato da Niazi bey e da Enver bey costrinse, con un colpo di stato, il sultano Abdulhamid a rimettere in vigore la Costituzione) al 1950. Come nell'inferno dantesco, la cronaca e la politica diventano materia poetica, e l'autore è sempre personalmente e appassionatamente impegnato nelle vicende che descrive. Buona parte di questo poema è andata dispersa o è stata distrutta dalla polizia turca. In carcere, la poesia era la sola espressione possibile di vita e di lotta. E tenacemente, vittoriosamente, Hikmet continuava a cantare nonostante tutto. Le sue poesie uscivano misteriosamente dal carcere, circolavano clandestinamente in Turchia, arrivavano all'estero, cominciavano a essere tradotte in lingue straniere. Hikmet non si arrende, continua a creare, a inviare i suoi messaggi all'esterno, a prendere contatto con i suoi amici in tutto il mondo. Nel '49 fa uno sciopero della fame per protestare contro i maltrattamenti cui è sottoposto insieme ai suoi compagni di prigionia. La campagna mondiale per la sua liberazione diventa sempre più intensa, le proteste giungono al governo turco da uomini illustri di ogni paese. Nel luglio del '50 sarà rilasciato, in libertà provvisoria e vigilata. Ad attenderlo alla porta del carcere, c'è Munevver. Passa a Istanbul alcuni mesi, sempre con la polizia alle calcagna, che controlla ogni suo passo, ogni sua lettera, ogni persona che incontra. P- chiaro che al primo pretesto lo arresteranno di nuovo. Non rimane che passare clandestinamente la frontiera e prendere la via dell'esilio. Munevver non può seguirlo: dove uno passa, non sempre due possono passare. E Munevver aspetta un bambino. Si chiamerà Melimet, e sarà trattenuto in ostaggio, insieme alla madre, dal governo turco, finché, dieci anni dopo, non riusciranno a evadere a loro volta. Hikmet ritorna a Mosca, la sua seconda patria. La rivede dopo ventitré, anni, e la trova assai diversa da quando l'aveva conosciuta ai tempi di Lenin, che era stato - per lui il padre ideale, il rivoluzionario esemplare. Scrive subito Ma è mai esistito Ivanovic?, satira assai spregiudicata su certi aspetti della società sovietica, con la sincerità e il coraggio che erano la sua caratteristica. Assai indicativa del carattere di Hikmet è la. fine del secondo atto, quando il fantomatico protagonista si rivolge verso le quinte e chiama in causa l'autore: "Ehi, Nazým Hikmet? Dove sei? Lo so bene: l'Unione Sovietica è la tua seconda patria, ami il popolo sovietico, lo rispetti; e sei un vecchio compagno del Partito; lo sappiamo tutti. Ma c'era proprio bisogno che il tuo primo lavoro d'argomento sovietico fosse una satira? D'altra parte, non si può dire che io o Petrov siamo rappresentanti tipici dell'umanità sovietica. Perché allora te la prendi con noi? Lasciaci in pace, abbiamo già abbastanza grane. Qui, poi, sei ospite del popolo sovietico e non sta bene approfittare cosi della sua ospitalità. Certo, non è piacevole ammonire un ospite; ma tutto ha un limite. Perciò senti: lascia perdere questa commedia. Sarà meglio per te, per noi e per il teatro che la rappresenterà, se pure ne trovi uno disposto a farlo! Ma se proprio la vuoi scrivere, almeno, mettici un lieto fine!". E la' voce di Hikmet risponde, da dietro le quinte: "t inutile, Ivan Ivanovic. L'Unione Sovietica è davvero la mia seconda patria, e io amo molto il suo popolo. Appunto per questo debbo agire come agisce qui qualsiasi uomo d'onore. Ma anche se qui, in questa casa che è la più bella del mondo, io fossi soltanto un o spite, non ci sarebbe differenza: se vedo che in questa casa s'è infiltrato un serpente, è mio dovere schiacciarlo ...". Dopo l'Ivan Ivanovic Hikmet scrive, nella sua dacia vicino a Mosca, numerosi altri drammi e commedie, recitate con crescente successo nei teatri del mondo socialista: La spada di Damocle, Nonostante tutto, ecc. Da noi, sono stati pubblicati da Einaudi e dagli Editori Riuniti. Da quando era studente alla Università di Mosca, Hikmet ha scritto in tutto venticinque lavori teatrali. Tuttavia la parte migliore della sua produzione era, ed è sempre stata, la poesia. La sua produzione poetica degli ultimi dodici anni di vita è ricchissima e molto varia. Scriveva moltissimo e leggeva poco; il suo studio era l'osservazione diretta della natura umana e della realtà storica. Non limava i suoi scritti e non gli importava di scrivere ogni tanto poesie affrettate e imperfette, più simili a comizi o a manifesti polemici. Scriveva con grande libertà, perché ne aveva voglia, perché aveva qualcosa da dire agli altri, felice se i suoi versi piacevano, senza preoccuparsi gran che se non piacevano. Se i traduttori bistrattavano i suoi versi (è stato tradotto in 53 lingue), alzava le spalle e si metteva a pensare ad altro. I suoi versi li regalava, generosamente. La gente poteva farne quello che voleva. Tanto lui ne scriveva altri, e si sentiva cosi ricco di poesia, che nulla poteva impoverirlo. Pieno di curiosità per il mondo, viaggiava spesso, nonostante la malattia di cuore, della quale non si curava molto. Invitato da Fidel Castro andò anche a visitare Cuba. Su questo suo viaggio scrisse un originale poemetto, pubblicato in Italia sotto il titolo La conga con Fidel. Sapeva viaggiare: sempre attento a creare un rapporto con ciò che lo circondava, sempre se stesso ma sempre desideroso di stabilire un colloquio, di capire ciò che era diverso, sempre politico, alla ricerca dell'uomo come prodotto di una società e di una condizione umana, sempre poeta, alla ricerca di immagini, sentimenti, sensazioni. Dovunque si trovasse, Hikmet osservava e interrogava con la prontezza e la tenacia di un inviato speciale, cercando instancabilmente di penetrare ciò che vi era, in ogni ambiente o persona, di simile o di dissimile nei confronti delle cose a lui già note. E le immagini e le parole si inquadravano subito nel suo mondo poetico, nella sua sconfinata fiducia di poter esprimere poeticamente ogni angolo apparente o nascosto della realtà. Venne anche diverse volte in Italia, che gli piaceva molto. La prima volta arrivò a Roma con il direttissimo da Mosca, e ammirò subito le grandi vetrate e la audace pensilina della stazione: disse che a Mosca ci vorrebbe una stazione cosi. La seconda volta arrivò a Bari con un piroscafo da Beyrut e, poiché il sindaco di Bari era socialista, fu ricevuto in municipio. Nelle varie città d'Italia, lo conducemmo a visitare sezioni dei partiti di sinistra; ne era entusiasta. Aveva scarso interesse per i monumenti e i musei e quando venne a Roma, non apprezzò molto i giri turistici con annesse illustrazioni storiche che gli feci fare i primi due giorni: "Mi hai rovinato Roma" mi disse, "non potrò più scrivere niente su Roma. Non riuscirò più a vedere Roma se non attraverso i tuoi occhi e le tue spiegazioni. Mi hai sciupato tutto". Fu felice invece di conoscere i nostri pittori, il nostro cinema (passò una serata a spiegare ad Antonioni perché gli piacevano l'Avventura e La notte) e la nostra architettura moderna. Avrebbe voluto trasportare a Mosca il grattacielo Pirelli. Da noi come in ogni parte del mondo, seppe crearsi molti amici. Era un uomo amabile e di straordinaria comunicativa, prestante e vivace: molto alto, con i folti capelli argentei (erano stati di un biondo quasi rosso) gli occhi azzurri e il colorito chiaro, non era quello che noi immaginiamo, assai erroneamente, essere il "tipo" turco. I turchi sono di tutti i tipi, come gli italiani. Il suo ultimo lavoro, che non fini di limare, fu l'unico romanzo della sua vita, intitolato I romantici. Rimaneggiato molte volte, racconta, in terza persona, un episodio autobiografico della sua vita clandestina a Smirne negli anni venti. Nelle ultime poesie, il pensiero della morte, della separazione dalla vita cosi fiduciosamente e coraggiosamente amata, riappare variamente nella ricerca di una difficile accettazione. Non si tratta ormai più di una morte epica, di un rischio volontario che è un estremo atto di vita, come in carcere e durante la lotta e l'azione. Si tratta di una morte estranea e fatale, che sceglie il suo momento senza chiedere nulla all'interessato, e perciò spiacevole e umiliante: "non ho paura di morire - ma morire mi secca - è una questione di amor proprio". Però è inevitabile, e bisogna fare i conti con lei, trovare un equilibrio e una dignità, tendere il filo della continuità tra noi e quelli che verranno dopo di noi: "non ho paura di morire, figlio mio - però malgrado tutto - a volte quando lavoro - trasalisco di colpo - oppure nel dormiveglia - contare i giorni è difficile. - Non ci si può saziare del mondo - Mehmet - non ci si può saziare! - ... la vita che si disperde in me - si ritroverà in te e nel mio popolo, per sempre". Il colloquio tra Hikmet e la morte ha la sua nota conclusiva, serena e luminosa, nell'ultima poesia che ha scritto, due giorni prima di morire:
Fino all'ultimo giorno, Nazým Hikmet ha vissuto pienamente, scrivendo, viaggiando, discutendo, amando il mondo e la gente, pieno di speranza e fiducia nell'avvenire dell'umanità. È morto il 3 giugno 1963, a Mosca. Usciva dal suo appartamento, come tutte le mattine, per ritirare la posta e comperare il giornale, e un infarto l'ha folgorato sulla soglia. Chronologia della vita e delle opere
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